“Nel paese della depressione” Chapter 2.

Eccomi qui con la seconda mirabolante parte del mio spettacolo a puntate: Alice nel paese della depressione. Nel primo articolo vi avevo parlato di quando, apparentemente all’improvviso, mi sono ritrovata con addosso una bella diagnosi di depressione grave e di come sono stati fondamentali i miei genitori durante questa prima fase. Bene, pensavate di esservi liberati di me? No, vero? Perché oggi vi propongo la continuazione di quella storia e vorrei parlarvi principalmente del secondo, glorioso ed inaspettato, salto ad occhi chiusi senza elastico nella depressione: il primo a 19 anni, il secondo a 26, perché two is megl che one. Ma soprattutto vorrei spiegarvi quanto sia stata fondamentale nel mio caso la terapia, sia psicologica che farmacologica.

reddoor 2

Pronti? Ok, vado.
Sia durante il primo periodo di depressione sia durante il secondo ho avuto la fortuna sfacciata di relazionarmi con persone competenti: medici, psicologi, psichiatri, farmacisti, chiunque mi volesse visitare. E qui arriviamo già alla prima questione che solitamente mi fa un tantinello incazzare: la depressione è una malattia, come ho avuto già modo di dire più volte, e come tale va diagnosticata da professionisti ed eventualmente curata con dei farmaci.
Non si può parlare di depressione perché ci si è rotti un’unghia, prima di tutto perché, beh, come dire, è una vaccata e secondariamente perché è giusto un filo irrispettoso per chi malato lo è davvero e con la vostra unghia rotta vi bucherebbe i bulbi oculari.

Quindi, ripetiamo tutti insieme: usare la parola “depressione” a cacchio di cane è sbagliato, amici miei.
Devo dire che con gli anni mi sono un pochino ammorbidita riguardo a questo, sarà l’avvicinarsi a grandi passi dei trenta, chissà. Quando ero una giovincella mi incazzavo di brutto quando sentivo qualcuno usare questa parola a sproposito e non credo ci sia bisogno di sviscerare ulteriormente i motivi. Negli ultimi anni, invece, sto riuscendo ad essere più comprensiva, anche se mi sono rimasti quel prurito alle mani e la bestemmia in gola quando “oooh che brutta giornata, sono depresso”. Non sei depresso, sei solo stronzo.

Va beh, andiamo avanti.
Vi dicevo un po’ più su che, non contenta della prima volta, ci sono ricaduta di nuovo, esattamente dopo aver preso la laurea specialistica (no, giuro, non è colpa della filologia classica!). Sono sempre stata una persona molto metodica, ma proprio al limite del maniacale, quindi per me l’università era una lista di cose da fare e di capitoli da studiare: prima di iniziare a preparare un esame mi facevo sempre una bella tabella ordinata delle pagine che avrei dovuto leggere, schematizzare e ripetere tutti i giorni, con addirittura le ore in cui dovevo mettermi sui libri. Quando finalmente mi sono laureata, mi sono ritrovata di colpo senza questo ordine, senza questi schemi in base ai quali organizzavo le mie giornate e boom, sono andata nel pallone. Nella vita non avevo fatto altro che studiare, avevo lavorato quando ne avevo bisogno, ma non mi ero mai concentrata sul dopo e quando il dopo è arrivato mi ha colta decisamente impreparata. La cosa positiva è stata che ho riconosciuto subito i sintomi e quindi l’ho presa relativamente in tempo, anche se ho dovuto lottare tantissimo per far capire al mio compagno, con cui già vivevo, che porca vacca stavo male davvero, non erano capricci; quando poi l’ha capito anche lui, è stato il mio punto di appoggio più forte.

Quindi – e arrivo finalmente al punto – sia a 19 anni che a 26 mi sono sottoposta a delle cure farmacologiche, oltre che ovviamente ad un percorso di psicoterapia. Ve lo dico sinceramente: all’inizio mica ci volevo andare dalla psicologa e assolutamente non volevo imbottirmi di farmaci, ma la mia forza di volontà era annientata, quindi tutto sommato non ho fatto così tante storie. E meno male, perché quando poi ho realizzato quanto questi professionisti mi stessero aiutando avrei voluto firmare per donare loro i miei organi, anche da viva.
Inizialmente andavo dalla psicologa e stavo zitta, pagavo fior fior di denari per guardare il muro, che cosa meravigliosa. Perché ragazzi, scavarsi dentro è la cosa più difficile che esista. E fa anche male, tantissimo. E fa anche incazzare, detto tra noi, perché vorresti avere tutto subito, vorresti stare meglio dopo due sedute e invece non va affatto così. Però una cosa l’ho capita: uno psicoterapeuta non ha la bacchetta magica, non ti risolve i problemi; quello che fa è dare al paziente gli strumenti per affrontare quei problemi da una prospettiva diversa, con una forma mentis differente, roba che all’inizio pensi “sì dai bella cazzata” e poi invece ti si apre un mondo e ti senti cretina per non averci pensato fino a quel momento.
Poi oh, tuttora quando vado a fare la mia oretta di terapia esco dallo studio piegata in due: è come se entrassi in un frullatore acceso alla massima potenza, tutti i sentimenti e le emozioni si mescolano e vengono a galla e poi affondano di nuovo, ci vuole un pochino per rimettere le cose al loro posto, mica ci si riesce con uno schiocco di dita.
Sento molto spesso dire che gli psicologi sono inutili, che vengono pagati per dirti quello che potrebbe dirti chiunque gratis e in un certo modo forse è anche vero. Non sono dei santoni, non ti infondono il benessere e la salute, però – ve lo assicuro – la mia esperienza parla chiaro: senza di loro non ce l’avrei fatta.

Allo stesso modo, gli psicofarmaci sono fondamentali, nonostante i vari “eeeh ma ti drogano e basta” che sento in giro. Certo, non sono acqua fresca, vanno assunti con cognizione e sotto lo stretto controllo di un medico, ma vi faccio questa domanda: voi vi curereste la polmonite con il the verde? Ecco, no. Perché per guarire da una malattia servono dei farmaci, chiaro e semplice.
Ho preso di tutto, belli miei: antidepressivi, ansiolitici, sonniferi, stabilizzatori dell’umore e chi più ne ha più ne metta. Tuttora sono in fase di décalage (termine usato in psicologia per indicare la diminuzione controllata della dose dei farmaci e che io uso solo per fare la figa) e mi sento tanto Heisenberg quando la mattina devo tagliare a metà la pastiglia che porca miseria parte tipo pallottola vagante. All’inizio gli psicofarmaci ti buttano a terra, mamma mia come ti sfiancano quelle goccine: dolori muscolari, apatia, sonno perenne, libido ai minimi storici, non un bell’effetto insomma. Oltretutto – volete ridere? – tra le controindicazioni della maggior parte degli antidepressivi è segnalata la depressione, ebbene sì, è fantastico.
Poi però, quando l’organismo si abitua e inizia a capire che quei principi attivi in quel momento servono al corpo e alla mente, ci si stabilizza e si va avanti senza problemi e poco alla volta si raggiunge il dosaggio giusto, quello che ci fa essere attivi ma non troppo e ci permette di dormire ma non troppo.

In definitiva, per quella che è la mia esperienza vi dico questo: gli psicofarmaci non funzionano senza un supporto psicoterapico, ma proprio scordatevelo, e in tanti casi la psicoterapia purtroppo non funziona senza la spintarella dei farmaci, questo è quanto.
Esprimo l’ultimo concetto e poi vi assicuro che chiudo, abbiate fede. Ficcatevi benissimo in testa quanto segue: essere seguiti da uno psicologo e/o da uno psichiatra non è una sconfitta. Non è da deboli, non è da mammolette, non è perché avete fallito, giammai.
Semplicemente in quella particolare fase della vita non avete gli strumenti per superare un ostacolo che è enorme e di questo non c’è da vergognarsi. Non siamo matti porco cazzo, ma manco per idea. Ricordatevelo sempre, vi prego.

Bene, direi che ci vediamo al prossimo appuntamento, quando vi parlerò di quello che ho imparato durante i miei anni di depressione, e vi giuro che è più di quanto possa sembrare.

“Attacchi d’ansia e panico” Chapter 1.

Attacchi d’ansia e di panico. Li ho avuti entrambi, solitamente mi ritrovo per l’ansia dentro una catena di pensieri da cui non riesco a staccarmi anche perchè di solito la mia ansia ha una lieve origine paranoide. I pensieri si rincorrono, ne nasce uno dietro l’altro con una velocità disarmante e rimettere i piedi per terra diventa sempre più difficile. Mi sudano le mani e mi inizio a sentire disorientata, una punta di oppressione al petto che si allarga come una goccia d’inchiostro sulla carta assorbente e diventa sempre più pesante, mentre il battito del cuore inizia ad accelerare. A questo punto, se sono brava a percorrere ogni passo, con il respiro e ripetendo piano piano i miei riti riesco a sbloccarmi, una passeggiata e necessità di aria ogni volta che mi succede. Se invece il flusso di pensieri aumenta mi ritrovo alle prese con una valanga, il petto sempre più pesante e la sensazione di paranoia che mi porta a sentirmi senza via d’uscita. Di solito qui inizia il groppo in gola e il respiro corto, mi sento disperata, e sono in totale panico. Mi è capitato di tentare di tornare alla realtà chiudendo le mani tanto che le unghie mi entravano nella pelle, per poter sentire dolore e fermare l’iperventilazione, per non rischiare di svenire perchè non riuscivo a riprendere il controllo del mio respiro. Diverse volte mi è capitato che mi andasse via la vista per diversi secondi perchè ero al limite dello svenimento, è stato terribile. Ma la cosa peggiore mi è capitata quando in qualche serata ho avuto attacchi di panico mentre ero ubriaca, credevo realmente di stare morendo, le braccia che mi formicolavano e quello sinistro diventava sempre più rigido, arrivavo in pronto soccorso in lacrime, urlando e in iperventilazione perchè passavo dall’isteria al panico, purtroppo aggravato dal bipolarismo, e finivo sedata perchè non riuscivo a riprendermi e tremavo come una foglia, ogni volta.

Adesso sono stabile da diverso tempo, i miei maggiori trigger erano l’ambiente domestico tossico e alcune persone di cui mi circondavo che approfittavano dello stato in cui ero. Ho fatto terapia farmacologica per tutto il 2012/13 e poi ho proseguito con la psicoterapia fino a tutto il 2014, quindi adesso sono “stabile”. E’ comune nei pazienti bipolari se si fa un buon trattamento, mi hanno insegnato a controllare gli attacchi di panico e ansia!

Il metodo dell’Uomo sulla Luna

Una domenica pomeriggio qualunque. Il tepore delle coperte fa da perfetta cornice all’ozio, il quale trova sua piena espressione in Netflix e nel suo vasto catalogo.

Sfogliando tra le infinite opportunità, mi imbatto in “Jim & Andy”, un documentario con protagonista Jim Carrey in cui spiega la preparazione ed i processi che hanno reso possibile la sua interpretazione del compianto Andy Kaufman, il comico che, da solo, ha cambiato le regole della comicità americana a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80.

Kaufman era noto per il personaggio dell’amabile e buffo meccanico Latka Gravas, nella sit-com Taxy (1978-1983), ma le sue performance in show come il Saturday Night Live erano spesso additate come borderline e fortemente controverse. Kaufman, infatti, amava confondere e spingere il pubblico a chiedersi quanto di ciò a cui stesse assistendo fosse reale.

In una delle sue performance aveva sfidato delle donne a fare a botte con lui in quanto avrebbe dimostrato la loro inferiorità persino contro un uomo minuto e decisamente fuori forma. Aveva ideato un personaggio a sé stante che rispondeva al nome di Tony Clifton, un cantante di Las Vegas poco incline ad avere a che fare con Kaufman stesso, insultandolo in continuazione. Il personaggio di Tony fu a lungo oggetto di dibattito da parte del pubblico, che non riusciva a capire se fosse realmente un’altra persona o l’ennesima trasformazione di Kaufman. In realtà, talvolta, il comico si serviva dell’amico Bob Zmuda o del fratello Michael per l’interpretazione di Clifton, con il quale appariva in simultanea per scaldare la controversia e confondere lo spettatore.

I suoi sketch lo hanno reso un personaggio misterioso e dibattuto al punto che, ancora oggi, si vociferi di un possibile ritorno del comico, il quale avrebbe inscenato la sua morte, avvenuta nel 1984 per un cancro ai polmoni, per ritornare 20 anni dopo (2004). Tesi avvalorata da Zmuda e dalla compagna di Andy, Lynne Margulies, in un libro uscito nel 2014 intitolato “Andy Kaufman: The Truth, Finally”, nel quale i due autori rivelano che, in realtà, il limite massimo della gag di Kaufman sarebbe 30 anni e che presto ritornerà per calcare le scene ancora una volta.

Altre teorie sembrerebbero avanzare l’ipotesi che Andy si sarebbe sottoposto ad un pesante intervento di ricostruzione facciale per diventare l’attore Jim Carrey, il quale riesce a riprodurre sorprendentemente bene la gestualità ed irriverenza di Kaufman e ne ha interpretato il personaggio in “Man on The Moon”, biopic del comico diretto da Miloš Forman, regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo ed Amadeus.

Nel documentario Carrey spiega con perizia il suo percorso nel ruolo di Kaufman e del suo Alter Ego, Tony Clifton, di come il metodo attoriale, meglio noto come Metodo Stanislavskij, lo abbia completamente assorbito e ne abbia annullato la persona in favore di quella di Andy. Le clip della troupe che Carrey aveva personalmente assunto per seguire ed immortalare ogni sua impresa ci mostrano l’attore pretendere di essere chiamato Andy fuori e dentro al set, seguire le gesta spericolate ed al limite della legalità di Clifton e cercare pace e conciliazione del suo personaggio con la famiglia Kaufman, persino con la figlia illegittima del comico, Maria Bellu-Colonna, con la quale Carrey intrattenne una lunga conversazione durante le riprese. La ragazza non aveva mai avuto modo di conoscere il padre prima della sua morte.

Il docu-film si concentra sulla difficoltà di Carrey nel ritornare sé stesso dopo aver interpretato un ruolo così complesso, dopo mesi di riprese e situazioni al limite dell’estremo.

Non è certamente la prima volta che il metodo attoriale produce questi effetti.

Il metodo Stanislavskij, elaborato dal teorico del teatro Konstantin Sergeevič Stanislavskij, è la più famosa tra le tecniche recitative in tutto il mondo. Si basa sull’approfondimento psicologico del personaggio e sulla ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore, fondendo, attraverso un’accurata introspezione, persona e personaggio.

Secondo questa metodologia, l’attore, al fine della piena riuscita dell’immedesimazione, deve essere in grado di affrontare due percorsi:

* Il processo di personificazione, nel quale l’attore prende confidenza con la fisicità del personaggio, partendo dal mero aspetto fisico, la postura e le movenze tipiche sino al vocabolario personale, la cadenza tipica nel dialogo e l’accento.

rendendo ancora ad esempio uno degli sketch più famosi di Andy Kaufman, “the foreign man”, in cui Kaufman si presentava sul palco dicendo, con un pesante accento straniero: “Vorrei imitare Mister Carter, il Presidente degli Stati Uniti d’America.” Con la stessa voce, diceva: “Salve, io sono Mister Carter, il Presidente degli Stati Uniti d’America. Grazie moltissimo”, aspettava la reazione del pubblico e poi chiedeva di potersi esibire una seconda volta, volendo imitare “l’Elvis Presley”. A quel punto il suo atteggiamento cambiava e si lanciava in una perfetta imitazione del Re del Rock con tanto di cambio d’abito e voce. Concluso il breve concerto, ritornava con la cadenza e l’accento dello straniero e diceva “grazie moltissimo”, andandosene. La riproduzione dello sketch nel film da parte di Carrey è incredibilmente fedele dal punto di vista fisico e vocale, indubbiamente l’attore ha speso molteplici ore nella preparazione e messa a punto di una personificazione così rassomigliante. Messe a confronto, le due scene appaiono pressoché identiche.

* Il processo di reviviscenza, nella quale la divisione del testo in sezioni diventa essenziale, procedendo con lo sviluppo dell’attenzione, l’eliminazione dei cliché, e l’identificazione del tempo-ritmo. In pratica, l’attore ricerca nel suo vissuto esperienze condivise con il personaggio e ne trae fonte di ispirazione per l’interpretazione della psicologia e del comportamento di quest’ultimo. Non basta che la reviviscenza sia autentica, deve essere in perfetta armonia con la personificazione. La personalità di Kaufman ha trovato terreno fertile nella psicologia di Carrey, sedimentandosi nel suo essere più profondo e permettendo a Jim di ESSERE Andy per tutto il tempo necessario. Citando Carrey durante il documentario: “Andy, come me, era quel bambino che diceva ai suoi compagni: ‘ho qui tra le mani qualcosa di davvero speciale, ma tu non puoi vederlo, perché ci vogliono dei poteri magici, che non hai.’.

4d379f29f8d122acc332e2c2469b2ad2

L’interpretazione di Carrey in Man on The Moon non è l’unica e nemmeno la più drastica delle trasformazioni psicofisiche figlie del Metodo. Molti attori prima e dopo hanno sacrificato corpo e mente con abnegazione in favore di una performance recitativa degna di nota.

Jack Nicholson, in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” [ Miloš Forman, 1973], si fece internare in un vero istituto psichiatrico, partecipando attivamente alle terapie ed alle sedute di gruppo per capire davvero cosa provasse un paziente nelle condizioni dei protagonisti del film; Andrien Brody, protagonista della biopic “Il Pianista”, dedicata al musicista e compositore polacco-ebreo Władysław Szpilman, è partito alla volta dell’Europa dell’est, interrompendo i contatti con amici e famiglia, senza nessun tipo di ausilio tecnologico e denaro limitato, con il fine ultimo di riuscire a riprodurre al meglio il senso di totale isolamento e disperazione del protagonista delle vicende durante l’epurazione del ghetto di Varsavia negli anni della seconda guerra mondiale [Roman Polanski, 2002]. Infine, tra gli attori meglio conosciuti per la dedizione al Metodo ed alla perfetta messa in scena del physique du rôle, ricordiamo Christian Bale, interprete di molte personalità complesse sul grande schermo, da Patrick Bateman, protagonista del film tratto dal libro di Bret Easton Ellis “American Psycho”, al celebre Bruce Wayne nella trilogia del Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan. Il punto più estremo nella sua lunga e proficua carriera dell’attore è stato raggiunto con il thriller psicologico “L’uomo senza sonno” [Brad Anderson, 2004]. Bale, per interpretare il ruolo di Trevor Reznik, il protagonista insonne da un anno a causa di un tremendo shock che lo ha colpito, ha perso circa venticinque chili di peso, arrivando a pesarne solo cinquantaquattro, sottoponendosi ad una dieta composta solo da acqua, una mela e una tazza di caffè.

Tutti gli attori citati finora hanno sofferto i postumi da distacco del personaggio, a ragion veduta: entrare in contatto in modo così viscerale e profondo con un’altra vita, viverne le vicende personali ed arrivare a capirle nello stesso modo del personaggio lascia un segno, una cicatrice marcata che non può in nessun modo essere cancellata.

D’altro canto, il compito del professionista dell’intrattenimento è convincere ed ammaliare, dovesse voler dire sacrificare tutto. È il prezzo mostruoso da pagare a Melpomene per riceverne il benestare.

“Col tempo diventai tale e uguale a coloro che mi schernivano” Chapter 1.

Cominciò tutto durante quel periodo, l’inizio che gettò le basi per creare l’inferno dentro la mia testa e il demonio dentro il mio cuore.
Dicono che certe esperienze, se vissute in giovine età, cambino tragicamente come un essere umano vedrà il mondo di fronte a sé e una volta cresciuto e questa è la mia storia.

Sono figlio unico e sono stato cresciuto in un ambiente iperprotettivo, ho avuto una famiglia che per ogni cosa si mobilitava per farmi stare il più comodo possibile e non ho mai dovuto chiedere nulla nella infanzia, ma se c’è una cosa al giorno d’oggi penso avrei dovuto chiedere sono i contatti umani. Gli unici che tenevo erano quelli coi parenti e quelli a scuola, che sino alla fine delle elementari sono stati fantastici, ma comunque indotti e in ambienti protetti.

Quando cambiai scuola e mi ritrovai in un ambiente estraneo con delle persone totalmente sconosciute mi sentii totalmente spaesato, come una persona che mette il piede fuori casa per la prima volta. Ricordo fermamente il primo giorno; un disagio incredibile, come una sensazione che mi avvertiva del pericolo imminente.
Dopo qualche settimana i miei compagni di classe cominciarono a rompere il ghiaccio tra di loro, ma non io. Io ero sempre per i fatti miei, nel mio angolino, nel mio disagio, incapace di colloquiare naturalmente con i miei coetanei per il semplice fatto che non sapevo come fare.

judge_others

Questo non passò inosservato e col tempo arrivarono le prime prese in giro, ma se c’è una cosa che ricordo di queste prese in giro è il fatto che erano mirate ad un determinato aspetto della mia persona, e non solo una. Vestivo con abiti usati, dato che la mia padrina lavorava in un ambiente in cui ne raccoglieva a bizzeffe, e di solito questi non erano propriamente “alla moda”. Motivo di schernimento, ovviamente.

Il mio essere introverso e timido era probabilmente la mia caratteristica caratteriale più evidente e dato che andava in contrasto con quella dei miei compagni, che sembravano già degli adulti belli e cresciuti a confronto, era motivo di schernimento? Ovviamente.
Sono sempre stato un ragazzo precoce e lo sfogo adolescenziale non era da meno, considerata la mia fronte che pareva il campo da gioco di Prato Fiorito dopo l’ennesima partita. Motivo di schernimento! OVVIAMENTE!
Questo continuò per un anno intero. Un anno interno in cui ogni mattina diventava sempre più difficile andare a scuola, sempre più difficile sentire gli scherni che partivano a squarciagola alla prima occhiata della mia faccia, sempre più difficile non vomitare dopo essermi lavato i denti e sempre più difficile chiudere occhio senza versare una lacrima al solo pensiero di avere la certezza di dover ripetere tutto quanto il giorno dopo.

I miei compagni si divertivano sopra di me, a volte letteralmente, e io non avevo nessuno eccetto me stesso. E dato che me stesso era la causa di tutti i problemi che mi capitavano, imparai ad odiarmi, a guardarmi allo specchio e volerci sputare sopra, a disprezzarmi con la stessa fredda crudeltà che ogni giorno mi veniva versata sopra. Perché non potevo essere come gli altri? Perché ero così sbagliato?
A peggiorare le cose era il fatto che non volevo sembrare debole agli occhi della mia famiglia o creare dispiaceri, per cui non ho mai riferito la cosa con fermezza o non l’ho mai fatta sembrare qualcosa di realmente serio, nonostante qualche volta pregassi mia madre con le lacrime agli occhi di poter restare a casa, di solito mascherando la cosa con eventuali dolori allo stomaco.

Tutto sulle mie spalle, incapace di reagire per via del mio carattere e valori educativi con cui ero stato cresciuto, nonostante più e più volte avrei voluto poter tirare un pugno in faccia all’ennesima presa in giro e vedere loro al posto mio, umiliati di fronte a tutti. Capitava spesso di sognare questa scena, ma di finire col non riuscire a tirare il pugno nel momento cruciale, di non avere la forza.

Tutto questo continuò per circa un altro anno e mezzo, per un totale di due anni e mezzo di prese in giro e umiliazioni continue. Col tempo diventai tale e uguale a coloro che mi schernivano e a mia volta feci lo stesso sopra un altro ragazzo durante il primo anno delle superiori, nonostante rimasi un ragazzo tenero nel profondo. Non lo facevo per cattiveria, ma solo per non venire considerato debole per l’ennesima volta e venire additato nuovamente da nuove persone. Da quel punto in poi tutta la mia carriera scolastica era concentrata sul non ripetere la stessa esperienza passata alle medie, con conseguente calo drastico dei voti scolastici.

Tutta la mia attenzione era rivolta a tenere su la maschera che avevo creato sopra di me, il mio scudo, la mia salvezza. Ma col tempo diventò troppo pesante da tenere su e abbandonai la scuola, chiudendomi sempre di più a casa e abbandonando ogni rapporto sociale, sviluppando una forte ansia sociale al contatto con estranei ed essendo incapace di agire normalmente in una situazione con delle persone sconosciute, in quanto di normalità nella mia vita non ne ho mai vissuto.

“È stato in quei primi momenti che ho perdonato mia madre per tutto quello che (non) aveva fatto” Chapter 1.

Avete presente quando sentite dire “Eh sì, Pinco Palla è depresso”? Ora, a parte la miseria d’animo di chi fa della depressione un pettegolezzo, vi siete mai domandati cosa sia davvero questa malattia?

Ve lo chiedo perché io, per esempio, prima di caderci dentro con tutte le scarpe, non ci avevo mai riflettuto in modo sensato.

Quindi eccomi qui, a ventinove anni e mezzo, a raccontarvi come cacchio mi sono trovata nella merda fino alla punta dei capelli e come ho fatto a capirlo.

Perché, certo, non è così semplice rendersene conto; non è che ti svegli una mattina e ti guardi allo specchio e oltre alle occhiaie da panda vedi anche un velo di depressione.

Oddio, in realtà un paio di nozioni base le avevo: quando avevo sette anni mia madre si è ammalata. Credo di non averci mai dato particolare peso fino all’incirca ai dodici anni, anche se ovviamente vedevo che qualcosa che non andava c’era, eccome se c’era.

Però sapete: piccolina, il resto della famiglia che cercava di ricoprire di cemento armato la campana sotto cui mi aveva messa, cose del genere. Però insomma, per quanto si possa cercare di proteggere una giovane mente ingenua ed innocente, una mamma che si aggira per casa come se fosse lo spettro di se stessa si nota.

Devo dire che all’inizio ero confusa: mi si diceva che “la mamma è ammalata” e io, con il candore dei miei nove anni, chiedevo come mai non guarisse, dal momento che prendeva delle medicine, questo lo sapevo. E questa, in realtà, è un po’ l’osservazione tipica del “non addetto ai lavori”: ma come, ti stai curando, com’è che non stai meglio? Eh, se hai un paio di mesi di tempo te lo spiego.

Per più o meno tutta la pre-adolescenza e l’adolescenza sono stata incazzatissima con mia madre, che nel frattempo continuava ad oscillare tra alti altissimi e basi bassissimi e io riuscivo solo a pensare “ma cazzo, possibile che tu non ce la faccia?”

Poi, arrivati i diciannove anni, è successo: mi sono ammalata io.

Ricorderò per sempre la notte in cui ho avuto il mio primo attacco di panico: ai tempi studiavo a Milano e da Brescia mi ero trasferita lì, in un cesso di casa che i miei coinquilini rendevano ancora più cesso sparando il ragù sul soffitto quando cucinavano.

Nessunissimo sintomo, niente di niente, semplicemente mi sono svegliata all’improvviso e ho pensato “ok, adesso crepo”: tachicardia, nausea, sudore freddo, giramenti di testa, fatica a respirare. Inizialmente ero convinta di aver fatto indigestione (perché sì, i sintomi sono molto simili), poi invece ho capito che era altro, anche se non riuscivo ancora a decifrarlo. Sono riuscita a riaddormentarmi, ma la mattina dopo ero

distrutta e avevo i muscoli indolenziti, come se avessi fatto il periplo di Milano di corsa.

Questo è stato l’inizio della fine. Gli attacchi di panico si sono fatti sempre più frequenti, a casa, in università, in metropolitana, ovunque. Non volevo più uscire né vedere nessuno, ero sempre stanca, mangiavo pochissimo, non avevo voglia di fare niente.

Ed è stato proprio in quei primi momenti di disorientamento e paura e spavento che è tornata in gioco mia madre, con tutto il suo bagaglio di esperienze,

Subito, nel giro proprio del primo mese in cui mi ero ridotta ad una merda ambulante, lei ha tirato fuori le unghie e i denti, mi ha guardata dritta negli occhi e mi ha detto, cito: “Alice, questa è depressione. Domani voliamo da psicologo e psichiatra”.

Non passa giorno in cui non sia grata a lei e a mio papà per avuto la forza e l’umiltà di ammettere di avere una figlia depressa. Perché non è facile non darsi colpe, non è facile guardare la realtà in faccia, non è facile ricominciare un percorso che per entrambi era finito da poco, per mia madre come personaggio principale e per mio papà come (miglior) attore non protagonista.

Eppure, nella sfiga, ho avuto il culo (perché di questo si è trattato) di avere accanto qualcuno che preso subito in mano la situazione, cosa che io non ero nemmeno in grado di pensare di fare.

È stato in quei primi momenti che ho perdonato mia madre per tutto quello che (non) aveva fatto: anche io ormai sapevo cosa fosse la depressione.

forgiveness.jpg

No dai, che chiusa da drama queen, non volevo. Quindi, per rimediare, vi do “una notizia in conclusione” (anche se notizia non è l’anagramma del mio nome. L’avete capita? Dai, Tiziano Ferro! Va beh): se ne avrete voglia, potrete leggere di più sulla mia esperienza in alcuni dei prossimi post.

E anche se non ne avrete voglia li scriverò lo stesso, perché, dopo essere guarita (hey, c’è stata un’altra crisi tre anni fa, ma non vi spoilero nulla), sento il bisogno fortissimo di parlare di quello che mi è successo, metti caso che a qualcuno possa tornare utile.

La Paranoia di un Paranoico.

“Per paranoia si intende una psicosi caratterizzata da un delirio cronico, basato su un sistema di convinzioni, principalmente a tema persecutorio, non corrispondenti alla realtà. Questo sistema di convinzioni si manifesta sovente nel contesto di capacità cognitive e razionali altrimenti integre. La paranoia non è un disturbo d’ansia, bensì una psicosi. Si tratta in sostanza, non di una sensazione di ansia o di paura, ma di disturbi di pensiero (giudizio distorto, sbagliato) di cui il paziente non ha coscienza.”

 

jj

 

Giudizio distorto.

Giudizio sbagliato.

Ci sarebbero centinaia di esempi per convincervi che ho grosso problema con la paranoia, ma credo che sia più d’impatto elencare il tipo di pensieri “distorti e sbagliati” che faccio quando ho una “crisi”. Parlo di crisi perché non sono sempre così, o meglio, ci sono delle volte in cui la paranoia diventa tale da non lasciarmi vivere, ma poi scende e torna nell’angolino. Sedetevi, prendete fiato, buona lettura.
Le persone che sparlano di me fanno bene, ho sicuramente dato loro modo di farlo. Io però sto male, non voglio, voglio piacere a tutti, perché non piaccio a tutti? Come si fa? So che lei ha tante persone in torno perché fa la scema con gli uomini, agli uomini piacciono le ragazze che fanno le oche con loro, dai ci provo anche io. Non ha funzionato, sono risultata ridicola, adesso mi prenderanno ancora di più in giro, esattamente com’è successo a lezione di ginnastica quando avevo 11 anni. Non tornerò più in questo posto, così si dimenticheranno di me e non mi prenderanno in giro. Lei ha esattamente 20 likes in più di me, chissà come mai, cos’ha la sua foto che non ha la mia? Ah ecco, i capelli, sono sicuramente sicuramete i capelli. Guarda che bei boccoli che ha, li voglio anche io, ma i miei capelli sono crespi e mossi, come faccio ad averli così? Non posso. Ecco, lo sapevo. Però alt, quest’altra ragazza ha i capelli lisci, potrei provare a lisciarli anche io. Ma no, non stanno lisci i miei capelli, non sono morbidi come i suoi. L’ultima volta che ho litigato con il mio ex mi ha lasciata, io avevo sbagliato, però forse non lo meritavo. Stiamo litigando, adesso mi lascia anche lui, me lo sento, se ne vanno tutti, ho qualcosa che non va ma non mi merito di essere lasciata. Secondo me mia madre non mi vuole bene, io lo so che voleva che fossi diversa, probabilmente se dovessi morire lei non sentirebbe la mia mancanza. Ma se lei morisse io come reagirei? Ma io le voglio bene? Ma io amo il mio ragazzo? Come faccio a capire se lo amo o no? Se smetto di sentire le farfalle nello stomaco vuol dire che non lo amo? Che amica sono, sono tanto aggressiva a volte, probabilmente non sono una buona amica, non so, chissà come mai piaccio alle mie amiche, non ne hanno motivo. No, devo svegliarmi, devo riprendermi, non si può vivere così. Ma come si fa? Come fanno gli altri? Perché no sono come gli altri? Devo isolarmi. Devo capire. Voglio smetterla.

Grazie per l’attenzione.

 

Volevo solo essere come le altre

Da piccola avevo una parente che lavorava nell’ambito della fotografia. Credo di essere stata la bambina più immortalata su pellicola del mondo: ero abituata a farmi fotografare, e sinceramente mi piaceva anche. Mi piaceva la mia immagine quando sfogliavo gli album sviluppati, mi divertivo a posare, anche se a volte ricevevo critiche un po’ inadatte (in fondo non ero una modella).
All elementari non mi sono mai preoccupata del mio aspetto, anche se non ho mai avuto un “fidanzatino” come le mie compagne, non ricevevo bigliettini e venivo molto più apprezzata dagli adulti per la mia passione per la lettura e la scrittura e il mio modo di esprimermi più “adulto” degli altri bambini, e a me andava bene così. Inventavo storie, poesie, personaggi. Volevo fare la scrittrice, o la regista, o la giornalista, il futuro lo vedevo come un grande, nuovo, bellissimo libro da sfogliare, e non vedevo l’ora di scoprirlo.

kghkh

Alle medie ero brava. Le insegnanti mi apprezzavano ancora, anche se cominciavo a sentirmi etichettare, per la prima volta, con l’aggettivo “distratta”, che mi avrebbe accompagnata per tutto il resto del mio percorso scolastico.
Verso i dodici anni cominciai a provare curiosità per i maschietti, e osservavo con un misto di ammirazione e invidia le amichette e le compagne che suscitavano interesse nei ragazzini. Cominciavo anche a chiedermi perché io non avessi, chiamiamolo così, il loro stesso “successo”. Ero la più piccola di statura, la più magrolina, non avevo ombra delle forme femminili che cominciavano ad apparire nei corpi delle mie coetanee, portavo gli occhiali ed ero considerata un po’ “strana” per le mie passioni, anche le mie amiche non mancavano di farmelo notare. Cominciai in quel periodo a fantasticare sempre di più su quello che per me era l’amore, che diventava un desiderio doloroso, frustrato: in realtà ora capisco che quello che volevo non era ancora chiaro nella mia mente, ero troppo immatura per poter sostenere un rapporto “a due”, volevo solo essere apprezzata allo stesso modo delle altre ragazze.
La mia anima stava entrando nell’adolescenza, e il mio corpo semplicemente non la seguiva, viaggiavano su due binari diversi, e questo probabilmente causò in me una prima rottura interiore.

Alla fine del primo anno di liceo mi innamorai. O almeno, scoprii cosa significa voler bene a qualcuno ed essere ricambiati. Lui aveva qualche anno più di me. Fu la prima volta per tutto. Durò un anno, finì.

Da lì in avanti non so ancora bene dire cosa sia successo. Di sicuro si concluse per sempre il mio periodo “dorato” per quanto riguardava la scuola. Non volevo più studiare, mi piaceva sempre leggere ma i miei interessi, come quelli di tutti gli adolescenti, erano rivolti alle uscite, agli amici, alla compagnia. I miei genitori mi guardavano con sospetto, ho un padre severo e non avevo le stesse libertà delle mie amiche. Me le presi lo stesso. Cominciai a mentire, a scappare di nascosto. Volevo fare tutto quello che desideravo, esistevo solo io, ero egocentrica come ogni quindicenne. Però. Però qualcosa che non andava c’era. Mi piacevano i ragazzi, ma il mio interesse nei loro confronti non era, come per la maggior parte delle mie amiche, quello di una cotta, del fantasticare su una persona, del voler condividere un pomeriggio, un’uscita, due chiacchiere. Io non volevo condividere. Volevo disperatamente dimostrare di essere apprezzata, di essere considerata “desiderabile”. Le altre ragazze venivano goffamente corteggiate dai maschi, che le cercavano, si dichiaravano, come si diceva, “ci provavano”. Io li andavo a cercare. Ero ancora una bambina, in realtà non sapevo niente di niente di sentimenti. Volevo solo la conferma di essere “femmina” come le altre. Il mio aspetto cominciava a cambiare, e anche se avevo tanto desiderato questo cambiamento, per la prima volta non mi piaceva quello che vedevo allo specchio. Ero ingrassata, il mio viso era diventato paffuto, la mia pelle non era liscia e perfetta come quella delle ragazze che vedevo sui giornali e su internet. Se un ragazzo mi parlava io cercavo subito di “conquistarlo”, anche se non mi interessava realmente: un bacio, un abbraccio, una carezza, erano un balsamo sulle ferite che sentivo dentro. Mi sentivo la più brutta, la più stupida, la meno interessante ragazza dell’universo. I ragazzi mi davano retta perché capivano che io “ci stavo”, e io facevo finta di non capire, perché avevo bisogno di quell’attenzione. Non ero più la bambina intelligente, la ragazzina che guardava la vita con occhi pieni di curiosità. Mi ero spenta. Continuò così per tutta la scuola, purtroppo. E purtroppo non presi davvero coscienza di ciò che stava accadendo fino a che non mi ritrovai sola. Non solo continuavo a non amarmi, a non conoscermi, ma ormai su di me pendeva la condanna di “facile”, anche le amiche mi avevano un po’ accantonata, non le divertivo più come prima, avevo stancato anche loro quando si erano accorte che la protagonista dello show cominciava a rendersi conto della situazione in cui era scivolata e a soffrire.

Un ragazzo mi disse che mi avrebbe “salvata”. Durò qualche anno. Per me non fu quello che aveva promesso. Nella mia mente non avevo nessuno a parte lui, ero terrorizzata dal fatto che potesse lasciarmi sola, e per tenerlo con me dovetti sottostare a quelle che erano le sue “regole”. Per lui ero uno straccio sporco da ripulire, e più cercavo di essere perfetta ai suoi occhi più lui mi ricordava quanto dipendesse da lui la mia “redenzione” e che senza di lui ero niente, sarei tornata la nullità che ero prima. Non voglio ricordare le cose che ho sopportato per stare con lui, fanno troppo male. Fatto sta che un giorno, non so come, non so con che forza, l’ho lasciato io. Quegli anni però mi avevano lasciata distrutta dentro. Non avevo ancora capito chi ero e cosa volevo, e anche se esteriormente ero finalmente diventata una ragazza carina, dovevo far fronte al cumulo di macerie che mi portavo dentro. L’università andava avanti a rilento, anche se con un rendimento inaspettatamente alto. Cominciai a rifugiarmi nel fumo. Fumavo anche cinque, sei canne di hashish al giorno, fumavo e dormivo, non volevo affrontare la realtà. Ricominciai a uscire con i ragazzi, ormai non mi importava nemmeno più di essere apprezzata, volevo solo compagnia per non rimanere sola con i miei demoni, per colmare il Vuoto che avevo dentro. Questa sorta di bulimia affettiva si accompagnava bene con una nuova scoperta. Imparai a controllare il mio peso, l’unica cosa su cui riuscivo a imporre la mia volontà. Arrivai a pesare 39 chili, 38. Guardavo le altre ragazze, volevo essere come loro. Chiunque, ma non me. Facevo soffrire chiunque mi volesse bene, distruggevo qualsiasi cosa toccassi. Mi sentivo addosso una maledizione. Non volevo dimagrire per essere più bella, al contrario: volevo che tutti vedessero la mia sofferenza, che mi si leggesse in faccia, sul corpo. Che tutti i ragazzi con cui ero stata si sentissero in colpa per aver contribuito a quella che pensavo fosse la distruzione della mia immagine, che i miei genitori si preoccupassero per la mia vita, non solo per il mio rendimento accademico, che il mio dolore fosse così esplicito nelle mie ossa sporgenti che tutti capissero, che finalmente MI capissero.

La solitudine fu una cura. Rimanere sola con me stessa fu enormemente pesante ma parlai molto con la bambina che viveva ancora dentro di me. Era lì, nascosta e maltrattata, ma non morta. Lottava disperatamente per essere ascoltata. Sperimentai di nuovo la Noia che si prova nella prima adolescenza, quella che ti fa scavare dentro per cercare qualcosa a cui aggrapparsi per sentirsi vivi. Ricordo pomeriggi interminabili a guardare fuori dalla finestra e aspettare la sera, per aspettare la notte, per aspettare il giorno. Non lo sapevo ma stavo scoprendo la meditazione. Il silenzio e la concentrazione lasciavano fluire lontano i pensieri negativi. Scoprii poco per volta che non era così terribile rimanere sola con me. Che avevo qualcosa che poteva essere apprezzato, nell’anima, sopratutto da me stessa. Che si può mentire a tutti ma non alla propria voce interiore. Cominciai a capire che dovevo allontanarmi da certe situazioni, certe persone, certi luoghi. Che tendo alle dipendenze, che siano affettive, dalle sostanze, dall’autolesionismo. Che tendo ad essere estrema in tutto, che devo mettere un freno dove rischio di farmi male e invece spingere al massimo in direzioni costruttive. Che ho bisogno di un obiettivo, senza un obiettivo si rimane in un limbo. Che ho bisogno di dare amore, che nel mio animo vive una figlia e una madre.

Ho superato le fasi più pesanti del mio percorso. Ogni giorno imparo qualcosa su me stessa. Non ho ancora risolto del tutto i problemi alimentari ma la consapevolezza di averli mi aiuta a non sprofondarci dentro di nuovo. Ho imparato a dire la verità e a parlare dei miei problemi. Ho ricominciato a fidarmi della mia famiglia e ora sono davvero un membro di essa. So ascoltare e dare sostegno, non solo chiederlo. Ho finalmente conosciuto l’Amore, quello vero. Quello che vuole dare e che riceve senza chiederlo. Che arriva per tutti, se si impara a guardarsi dentro. Ho sempre creduto fosse una frase fatta, un po’ banale, ma non è così. È il “gnozi sauton” dell’oracolo di Delfi. Conosci te stesso. È la lezione più importante che si possa imparare. E non si smette mai di farlo.

A volte bisogna saper prendere del tempo per sé, bisogna imparare a dire no. Perché vivremo con la persona che siamo tutto il tempo che ci è concesso su questa terra, e siamo noi stessi a doverci amare, a doverci salvare.

Un anno dopo.

Mi rendo conto che vivere una situazione come la mia, da fuori, non deve essere proprio un gran spettacolo.

Me ne rendo conto dagli sguardi di chi mi conosce a malapena, solitamente, che col sorriso falso e gli occhi gonfi di panico cerca un diversivo per non affrontarmi, non vedermi, non sentirmi.

Mi rendo conto che non sia per tutti affrontare una faccenda come la mia e non sentirsi davanti ad un colosso. Una mastodontica montagna che copre persino il sole, stagliando sul mio interlocutore un’ombra scura ed inquietante, che quasi sempre si traduce in tentativi disperati di fuggire dalla conversazione e sperare di non incrociarmi per un po’.

Neanche fossi Pennywise il Clown.

Il fatto è questo, non credo di essere io a far paura, ma ciò che sta dentro di me, come del resto era per Pennywise. Non è l’aspetto, la maschera gentile e buffa del clown, a fare paura ai bambini di Derry, ma ciò che vi sta dietro: loro stessi. I bambini di Derry hanno il terrore di ciò che c’è nella loro testa e Pennywise questo lo sa, perciò muta la sua forma.

Se Stephen King ci abbia regalato un saggio di psicologia sotto forma di novella del terrore lo lascio decidere a voi, io sto blaterando di cose opinabili da qualsiasi letterato con un minimo di conoscenza addizionale dell’argomento.

Forse allora sono davvero Pennywise il clown, il terrore della mia personalissima Derry. Si spiegherebbero molte cose.

Solo non pensavo fosse così dura incarnare la paura di molti, quella della morte.

Portarsi dietro la morte non è poi un così gran passatempo, a conti fatti. Chi conosce ciò che è capitato si limita a sguardi spaventati e frasette studiate ad hoc per svicolare, chi non conosce e, in un modo o nell’altro, viene a sapere si esibisce in una perfetta imitazione dell’Urlo di Munch, con mani stampate sulle guance ed espressione pietrificata inclusa. Si potrebbe dire che abbia visto più versioni de L’Urlo io che Edvard Munch stesso, che ne dipinse solo quattro.

Sto sdrammatizzando, ma lo faccio spesso in realtà, anche se non ci sarebbe proprio nulla da sdrammatizzare. È solo che, giunti oltre una certa soglia, viene automatico minimizzare, se non per te stesso, almeno per coloro che ti stanno attorno. Non è molto carino vedere la gente che ti tratta in maniera differente solo perché hai affrontato un lutto e non sa bene come comportarsi, diventa complicato per tutti.

Specialmente se sei in lutto da un anno.

Specialmente se quella che è morta è tua sorella.

Specialmente se tua sorella era molto giovane.

Diviene complicato, talvolta stupido, cercare di metterci una pezza, non parlarne o farlo il meno possibile. Mi rendo conto anche io che sia una cosa estremamente ostica non far sollevare domande scomode sul perché dei tatuaggi che ho o chi sia la ragazza bionda che campeggia insieme a me nella mia foto di copertina di Facebook.

È che, come ho già accennato, portarsi dietro la Morte non è una passeggiata. Quando sono obbligata a raccontare sento intorno a me allargarsi il campo, come se chi domanda si ritraesse nel suo guscio per non sentire il finale della storia, come i paguri. Come se non avesse mai realizzato quanto la morte sia in tutte le cose, vicine e lontane, sino a quel momento e, ora che il vaso di Pandora è stato aperto e la verità gli è piombata addosso, non volesse più saperne.

“Troppo vicino, fa troppo male, no grazie, la prossima volta mi faccio i cazzi miei.”.

Indietreggiare verso lidi più semplici di quelli in cui sguazzo io non è una scelta che ho mai biasimato, credo. Certo, può far male per molti versi, ma è un sentimento che comprendo. Puro istinto di conservazione. Non sono acque tranquille queste e non ho mai preteso che qualcuno ci rimanesse.

Quando si affronta un lutto è così, non si pretende, si accetta. Al massimo proprio si rifiuta, ma mai si obbliga. Il lutto è un momento personale e come tale va trattato, è inutile anche stare a ricamarci sopra. È semplicemente impossibile che tutti reagiscano allo stesso modo o tutti capiscano le reazioni altrui.

C’è chi si ritrova nella condizione di non voler affrontare la situazione per quella paura viscerale di avere la morte accanto a sé ed inizia ad indietreggiare. Passo dopo passo si allontana dall’epicentro del cataclisma per raggiungere l’angolo più vicino e fuggire a gambe levate. Può fare molto male accorgersene, ma non ci si può fare molto. È uno scontro di volontà che non porta a nessuna modifica di fatto.

Paura contro dolore.

Il punto è che credo che non ci sia nulla di male nel mostrare di non volere aver nulla a che fare con il piccolo mostro che sto tentando di annientare giorno dopo giorno, anzi, sono una instancabile sostenitrice dell’Alta Filosofia di Tamburì, il coniglietto di Bambi: “se non sai che cosa dire, è meglio che non dici nulla.”.

Il Saggio ha parlato.

Davvero, piuttosto il silenzio, che per quanto agghiacciante ed imbarazzante possa sembrare, rimane meglio di tutte le varie frasi di circostanza e monologhi shakespeariani sull’ingiustizia della vita. Si dovrebbe premiare più spesso l’indelicatezza del silenzio, che per quanto duro e talvolta ingestibile, è una soluzione più economica rispetto al prezzo da pagare per una frase inopportuna.

È questione anche di economia, un calcolo costi-benefici, nulla più, nulla meno.

Lo stesso discorso di tipo economico si applica da questa parte della trincea. Non sono migliore in nessun modo da chi sceglie di indietreggiare o sceglie male le proprie parole. Non sono migliore nemmeno perché ho la vita segnata da una tragedia.

Non sono migliore di nessuno, io. Non lo sono mai stata.

Il mio modo di pensare è nettamente cambiato da quando è accaduto, certamente. Non sono più io nella misura in cui nessun altro può dire di essere sé stesso dopo un evento sconvolgente come questo.

Tante volte, guardandomi allo specchio, mi fisso a fondo. Cerco di capire dove e quando ho smesso di riconoscermi nella persona che ero prima, mi sento una sconosciuta dentro al mio stesso corpo.

Ciò non vuol dire essere meglio o peggio di prima, solo doversi scoprire nuovamente, una coinquilina nuova in una casa relativamente vecchia.

Credo che il problema principale sia stato proprio questo. Non riconoscendomi io, anche coloro che mi stavano attorno hanno cominciato a domandarsi dove iniziava e finiva la mia trasformazione. Alcuni non hanno smesso di cercare, ad altri non l’ho permesso, altri ancora hanno semplicemente gettato la spugna. Ci ho pianto tanto per questo.

Ho tentato di ripristinarmi più volte, ma ho scoperto di non essere nemmeno lontanamente imparentata con un computer. Ci sono stati mesi in cui la voglia di ritornare “me stessa” superava qualsiasi altro obiettivo che mi ponevo, per poi scoprire che stavo tirando una corda che era già spezzata dall’altro lato.

È inutile continuare a sperare in qualcosa che sai già essere seppellito da febbraio. È una metafora forte, ma rende bene l’irreversibilità di ciò che un cambiamento del genere fa alla vita.

Il succo di questo sproloquio non è dimostrare chi abbia ragione o torto, chi sia più stronzo o meno. Il nocciolo sta proprio qui. Siamo tutti esseri umani che non sanno affrontare la morte meglio di quanto non sappiano affrontare la vita, non c’è da meravigliarsi se ne usciamo più o meno tutti stronzi, ma la cosa bella di questa vita ingiusta, infame e dedita al caos è il perdono verso chi ne esce più stronzo di te.

Non cambierà nulla, c’è ancora un abisso da superare ed io non ne vedo nemmeno il fondo, tuttavia io volevo solo dirvi che vi perdono, per tutto. Vi perdono per non essere stati all’altezza della situazione tanto quanto non lo sono io.

Cosa più importante ancora, io mi perdono. E dopo un anno, io direi che è una gran cosa.

La gabbia del cuore

E’ come non essere sicuri di niente, tranne di aver sempre sbagliato tutto. Sono tante piccole domande che cominciano con: “E se?”; “Ma non è che?”; “E se poi?”… domande circolari che si ripetono ininterrottamente, giorno e notte riempiendo la mente fino a farla pulsare dal dolore e farti sentire sull’orlo di un precipizio.

Sono ossessioni.

Ossessioni che si attaccano alla cosa più bella ed importante che hai e la logorano con forza e cattiveria cercando in ogni modo di portartela via. Facendoti credere con forza che tu vuoi liberartene. Ma così non è e ti senti spaccato in due. Da una parte ci sei tu che combatti contro questi pensieri, ma ti senti sempre più schiacciato perché sembra che più li colpisci più si ingigantiscono. E arrivi a fare cose assurde. Così corri in bagno entro dieci secondi. Hai solo dieci secondi altrimenti tuo nonno morirà e sarà colpa tua. Devi necessariamente, DEVI, contare le piastrelle del pavimento prima di dormire, oppure casa tua prenderà fuoco.

E’ necessario lavarsi le mani fino a renderle rigide, fino a usare oltre al sapone il disinfettante, la carta vetrata per togliere lo strato di sporco che ti impregna magari solo un dito ma che non ti lascia andare. Se non lo fai, prederai una malattia rara e mortale. Fino ad una certa età non mi sono neanche accorta di quello che facevo, del perché lo facevo. Non ero in grado di dare un nome a queste cose, erano solo mie piccole stranezze che, come erano venute, si allontanavano. Così, in realtà nessuno ci ha mai fatto troppo caso. Fino ad un anno e mezzo fa. Mi sono trovata a piangere alle due del mattino con le mani doloranti: era la cinquantesima volta che controllavo che la porta fosse chiusa. Ho annusato così tante volte il gas per essere certa che fosse chiuso che alla fine mi girava la testa per l’iperventilazione.

Eppure questo non è stato il peggio, no.

Il peggio sono stati pensieri sulla persona che amo. Pensieri che si insinuavano come coltelli nei miei sentimenti e andavano a tagliuzzare lentamente un legame che mi sembrava indissolubile costringendomi a continui controlli. “Ma cosa provo?”, “Provo amore?”, “Perché non mi sento emozionata ogni secondo quando siamo insieme?”, “E se non la amassi più?”, “E se la stessi solo prendendo in giro?”. IO NON VOGLIO CHE SIA COSì. Più controllavo, peggio era, più guardavo ogni mio pensiero, reazione o azione più cadevo nel baratro delle mie stesse ossessioni perché non può esserci amore dove c’è controllo. Non può esserci sentimento, se il cuore è chiuso in una gabbia di pensieri. E il mio cuore lottava, lottava più di ogni altra parte di me per farmi svegliare da quello stato di dormiveglia terribilmente doloroso che non mi faceva vivere. Ho perso 8 chili. In una settimana. E volevo morire. Non che fossi depressa, ma avrei fatto qualsiasi cosa, anche tagliarmi le vene, se questo fosse stato sufficiente a fermare i pensieri. A far star zitta la mente. Non mangiavo, non dormivo, avevo la costante compagnia di questo essere pesante che mi stava sulle spalle e rideva di me, erroneamente l’ho scambiato per la mia coscienza. Sapeva solo sussurrarmi: “Sei una stronza. Guarda come la fai soffrire. In realtà non la ami, non te ne frega niente. Stai solo giocando con lei.” Più cercavo di fargli vedere che non era vero, più diventava grosso, cattivo e mangiava ancora di più dal mio cuore. Non potevo parlarne con nessuno, la mia ragazza aveva pianto quando avevo rivelato questi pensieri, sperando di trovare rassicurazione, sperando che lei mi dicesse che non erano veri, avrei voluto solo questo. Sapere con assoluta certezza che tutto ciò che mi stava distruggendo non era vero.

E invece è umana, e ha pianto terrorizzata, così non le ho detto più niente. Cercavo di sfogarmi ma mi confidavo con chi non poteva capirmi e ricevevo “consigli” che mi facevano solo paura: “Forse senesi queste cose dovresti lasciarla.” Non mi sono arresa, anche se avrei tanto voluto. Non mi potevo arrendere perché era troppo importante per me. Così ho trovato qualcuno che mi capisse veramente.

Ho scoperto che si chiamava Disturbo Ossessivo Compulsivo, o OCD in breve. Ho scoperto che altri ne erano usciti, che ciò che partorisce la mente a volte è solo una gabbia per il cuore, che quello che pensavo non era necessariamente vero. Ho ripreso speranza. E’ durata una settimana. Idilliaca e bellissima sensazione di tranquillità che dopo soli sette giorni è stata sostituita dallo stesso senso di oppressione di prima. Così cercavo rassicurazione ovunque, la rassicurazione era la mia droga, la mia nuova compulsione per sopravvivere alle ossessioni che cercavano in ogni modo di distruggermi. Rassicurazioni sui miei sentimenti chieste a parenti che non potevano saperne niente, chieste a una terapeuta che, facendo bene il suo lavoro, incarnava la mia ansia costante con cattiverie che all’inizio non sopportavo. Con amici, alcuni dei quali mi hanno anche capita, su internet. Sniffavo rassicurazione al posto dell’eroina, e lentamente mi sono assuefatta e non è più bastata neanche quella e sono ricaduta nel mio sconforto, nei miei pensieri senza la libertà di dirlo a nessuno perchè nessuno ti capisce quando hai una malattia mentale. Ti dicono che è una scusa, ti dicono che basta prendere un bel respiro e passarci sopra. Non capiscono che a volte anche uscire di casa è un traguardo enorme e guardare il tramonto la sola cosa che ti fa sperare in un domani migliore. Nessuno ha idea di quello che porti dentro, del peso infinito che ti schiaccia il cuore e che ti consuma, lentamente, da dentro. Ti attacchi ai bei ricordi dei tempi che sembrano andati, piangi sulle foto di ciò che ti sembrava perfetto e nel quale ora vedi terribili difetti. Ti senti un mostro, giorno per giorno, ti dici che certe cose non le dovresti pensare. Soffri pensando che la tua amata soffre a causa tua, soffri pensando che starete insieme per sempre e soffri pensando che la potresti perdere. Semplicemente soffri ed ogni cosa bella della vita viene coperta da un velo grigio. Rincorri il tempo cercando di afferrare una briciola, desideri la felicità ma la tua mente non te la lascia consumare. Tuttavia, c’è un però. Il però è che niente, nessun dolore è mai infinito. Anche questo non lo è. Che soffriate di disturbo ossessivo compulsivo da relazione, omosessuale, di controllo, di contaminazione o che so io, ve lo giuro: non durerà per sempre. Dopo un anno e mezzo non sono guarita, ma ho ripreso quattro chili, sono tornata a sorridere e a vivere. A volte, però, i pensieri cercano di riportarmi indietro.

Fa male. Ma passerà.

“Solo uno stronzo o un idiota pretenderebbero una corsa da chi ha una gamba ingessata” – Ruminazione

“Convivere con la ruminanza è come convivere con la ruminanza è come… Oggi cosa devo fare? Se ci pensi ieri è stata una bella serata ma… Quel bastardo poteva risparmiarsi di farlo e se solo… Loro non vogliono capire, non importa quanto mi sforzi a… non è possibile che vada sempre tutto di merda, non ne… A cosa sto pensando? Di cosa dovevo parlare?”
Convivere con la ruminanza è veramente complesso. Seppur quando raccontata sembri un disturbo banale, una cosa sulla quale puoi per altro impegnarti quanto vuoi nel descriverla senza mai riuscire ad essere incisivo come vorresti, conviverci è tutt’altra cosa.
In cosa consiste la ruminanza? Questa maledetta, che mi affligge e mi rende complicato anche solo scrivere in questo preciso momento, può esser vista banalmente come un sovraccarico di pensieri. E chi non aspira ad avere un cervello perennemente attivo? Nessuno, non in questo caso almeno, perché la ruminanza (nella mia specifica casistica) si presenta come un filone di pensieri circolari, presenti in maniera costante ed instente nella testa e che vanno a sovrapporsi al di sopra di praticamente qualsiasi attività io stia compiendo (sia essa piacevole o spiacevole) durante tutto il corso della giornata.
Ogni giorno mi sveglio con il cervello impegnato già in qualche assurda conversazione con se stesso mai e, credetemi, veramente mai piacevole. Questo sottofondo di pensieri negativi agisce perennemente sulla mente, durante tutto l’arco della giornata ed si conclude solo nel momento in cui, dopo essersi rigirati a letto per la millesima volta, il cervello si spegne senza preavviso.
Fondamentalmente in me la ruminanza si presenta con 2 tematiche prevalenti, entrambe distruttive per motivi che ci tengo particolarmente a spiegare:
Nel primo caso vivo dannandomi per qualsiasi cosa andata male o non bene quanto avrei voluto, in un passato più o meno indeterminato della mia vita. Questi pensieri possono comprendere sia la frase detta poco prima a qualcuno, il modo in cui hai afferrato il bicchiere per bere, l’aver indossato per sbaglio una maglia al contrario, l’aver scelto una scuola sbagliata, il pentimento per non essersi impegnati di più su qualcosa alla quale si teneva dieci anni prima e così via… Non importano né il quando, né il quanto. Importa soltanto il costante pensiero di sconfitta che ti travolge e ti impedisce di avere una qualsiasi predisposizione propositiva a qualsiasi tipo di azione ti venga richiesta. In una situazione simile non si è in grado di vedere il futuro neanche se si parla di qualcosa a poche ore di distanza. Studiare o avere un percorso di crescita, sia per professione che per piacere, diventa un peso se non una vera e propria tortura in quanto ogni step percorso nel raggiungimento di un obbiettivo viene visto come un fallimento, perché non si ha effettivamente raggiunto l’obbiettivo in se. Il raggiungimento di tale obbiettivo poi, porta ad una gioia quanto mai effimera in quanto “Va bene che riesco a farlo, ma sai quanta gente è migliore di me? E poi c’è ancora così tanto da fare, sono solo un fallito. Se mi fossi impegnato di più prima a quest’ora sarei molto più avanti. Sono un idiota.”. Troppe volte mi ritrovo in questo loop di pensieri e non c’è modo di razionalizzare la cosa e di rendersi conto che si stanno pensando solo cazzate quando in realtà stai facendo ottimi progressi e questo va a contaminare ogni successivo tentativo di azione che risulterà sempre più pesante, deleterio e svilente.
Il secondo caso invece, quello che mi si presenta non appena anche solo una punta di rabbia si insinua nella mente, è quello del vivere costantemente dei litigi immaginari. In questa situazione mi ritrovo sempre ad avere litigi con conoscenti più o meno intimi, che si presentano istantaneamente nel momento in cui l’umore si fa rabbioso e si basano ogni volta su regole ben precise quali: la perdita perenne del confronto, l’incapacità dell’interlocutore di accettare le nostre parole malgrado ci si senta o si abbia la piena ragione, una costruzione immediata e precisa del contesto del litigio e la sensazione di ingiustizia che ti logora l’anima. Questi litigi vanno a prendere argomenti non trattati, argomenti più volte discussi, sensazioni negative del momento che vengono crocifisse o derise dai nostri sfidanti immaginari. Addirittura una volta, guardando lo spazzolino da denti, mi bastò solo un secondo per immaginarmi nello studio dentistico a chiedere, come nelle pubblicità, se ci fossero dentifrici o spazzolini da consigliarmi. La risposta del dentista fu che solo un demente poteva davvero fare una domanda simile e da lì fu colpito ogni punto debole possibile riguardante l’ingenuità di credere alle pubblicità e l’incapacità di saper gestire in autonomia una scelta banale come quella. Capite da voi che se il minimo oggetto basta a far partire questi litigi c’è un’alta possibilità che essi prevalgano su qualsiasi tipo di pensiero ci possa venir in mente durante la giornata. La cosa più devastante consiste nel fatto che non importa quanto essi siano fantasia, ricordo o possibilità, perché a prescindere frantumano l’umore come se fossero successi veramente; immaginate voi di viver realmente ogni giornata litigando con 4, 5 o 20 persone diverse, senza averne mai vinta una! La cosa più buffa è che, nel momento in cui riesco a prendere il controllo del flusso dei pensieri, la scena cambia e mi ritrovo a scusarmi e a raccontare come a voi in questo momento, cosa avviene nella mia testa all’ennesima persona inesistente.

ruminazione-mentale
Ora, sperando che degli esempi dettagliati abbiano potuto dimostrare l’evidente disagio della MIA ruminanza al di là di un banale “penso sempre” e sperando che sia riuscito a marcare prepotentemente una linea di distinzione fra quella che è un’ossessione e quelli che possono essere pensieri o malesseri normalmente ricorrenti, posso permettermi di farvi un bell’elenco puntato delle conseguenze generali e pratiche che dimostrano quanto essa mi impedisca di vivere normalmente le mie giornate:
• Concentrarsi è impossibile: è come provare ad ascoltare una persona che bisbiglia in una stanza gremita di gente urlante.
• Ascoltare musica, guardare qualsiasi cosa, leggere, giocare, suonare, disegnare, lavorare… tutto diventa pesantemente complesso e richiede enormi sforzi per essere compiuto.
• Conversare attivamente con le persone, senza perdere il filo del discorso altrui, è spesso una follia.
• Prender sonno diventa difficilissimo, soprattutto se non si tiene un elemento di distrazione attivo nella stanza.
• Mantenere un minimo di relax muscolare equivale a provare a volare: qualsiasi cosa tu possa fare, finirai solo per farti del male.
• Il cervello è costantemente sfinito, dunque sottoporlo a sforzi (anche di poco conto) può portare a grandi mal di testa e a fortissima stanchezza.
• Ad occhi chiusi, immagini e parole vagano per la mente come nei peggiori stati (se intendete il mio pensiero).
• La confusione diventa una costante.
• Provare a combattere altri disagi/problemi, diventa quasi impossibile.
• Il controllo della ruminanza è impossibile, quando parte puoi solo sperare che finisca in quanto combatterla aggrava soltanto la situazione.
• Eventi piacevoli e non risultano blandi, in quanto vissuti sempre con la testa da chissà quale parte.
• La capacità di memorizzare e ricordare si riduce ai minimi termini.
• I pensieri sono costantemente circolari. Si traducono in: pensiero negativo – affronto del pensiero – conseguenze negative del pensiero – presa di coscienza su possibili azioni che lo contrastino – tentativo di contrasto fallito – demoralizzazione – pensiero negativo – e così via.
Nel mio caso stiamo parlando di una ruminanza veramente tosta e in attivo da anni, che può esser sconfitta solo tramite l’aiuto farmacologico. Una semplice terapia psicologica non riesce a funzionare laddove non si hanno le facoltà mentali sufficienti per potervici ragionare e lavorare.
Spesso si viene marchiati come idioti, pigri, svogliati o falliti quando all’atto pratico situazioni come questa ti indispongono anche alla più semplice delle azioni, rendendoti incapace di gestire correttamente le giornate. Questo mio racconto è stato reso possibile solo dal lavoro titanico di terapia che ho svolto negli ultimi mesi e che mi ha reso conscio di quanto fossero fuori posto certi miei processi mentali considerati normali, abiutali o giustificati per moltissimi anni!
Spero tramite esso di poter “donare” una presa di coscienza ai più sfortunati (le autodiagnosi però non servono, se avete seri dubbi contattate assolutamente uno specialista), in quanto prima si agisce e prima si riesce a circoscrivere la cosa. Inoltre, spero che chiunque non si trovi in questa situazione possa riflettere e comprendere come sia controproducente pretendere da una persona che non può dare.
Del resto, solo uno stronzo o un idiota pretenderebbero una corsa da chi ha una gamba ingessata.